di Laura Cervellione
23 gennaio 2015Sarà che l'impatto politico-sociale delle Femen è tutto giocato sulla forza dell'immagine, ma Amina Sboui forse non sarebbe stata altrettanto esplosiva senza i fotografi che l'hanno seguita e immortalata nei momenti cruciali, unendosi materialmente alla sua battaglia. La fotoreporter di Ivrea Cristina Mastrandrea, diplomata all'Istituto superiore di fotografia di Roma e collaboratrice freelance per varie testate - Rainews, D di Repubblica, il Manifesto -, attiva su vari fronti di lotte di liberazione femminile, dalla Palestina al Messico, ha seguito da vicino la giovane Femen tunisina.
Amina, per aver messo su Internet una sua foto a seno nudo, ostensione simbolica che contraddistingue il movimento d'emancipazione femminile delle Femen, è stata minacciata dai fondamentalisti islamici, segregata in casa, picchiata, fino alla carcerazione per una semplice scritta "Femen" su un muretto. Per la sua liberazione le Femen sono scese in piazza a Parigi e in molte altre città. Una manifestazione di solidarietà per quella strana «Topless Jihad» portata avanti dalla tunisina diciannovenne nella complessità del contesto islamico.
Ora Amina è libera e vive e studia a Parigi. In Italia è appena uscita la sua autobiografia, "Il mio corpo mi appartiene" (Giunti editore). Appena rientrata da Gaza, Cristina Mastrandrea ci racconta dell'incontro che le ha cambiato la vita, umanamente e poi anche professionalmente con i reportage realizzati per Rainews24.
Cristina, cominciamo dal principio: com'è entrata in contatto con Amina?
"Tutto è iniziato due anni fa. Ero a Tunisi e lavoravo a una ricerca sulle donne tunisine nel periodo post-rivoluzionario. Dall'Italia arriva la notizia dell'elezione di papa Francesco. Sempre in quei giorni c'era stata una protesta in piazza delle Femen, e vengo informata che contestualmente una tunisina aveva pubblicato delle foto a seno nudo sul web. Pensai: devo assolutamente trovare questa ragazza. Tramite internet sono riuscita a entrare in contatto con lei, anche se prima di poterla incontrare ho dovuto darle molte rassicurazioni. Ha voluto accertarsi della mia identità di giornalista con una telefonata via Skype. Il giorno dopo ci siamo incontrate nella Qasba. Lei era accompagnata da Ziad, il suo primo fotografo".
Queste forme di attivismo vivono in simbiosi con l'immagine...
"Questo è, in effetti, un filone delle Femen. Usare l'immagine per colpire, una lotta che s'avvale dello strumento del corpo, veicolato dalle immagini televisive e fotografiche".
Lì dunque il suo primo scatto.
"Sì. Davanti a me Amina ha scelto di farsi pitturare sul corpo la scritta "Women = Revolution". Questa mia foto è poi stata pubblicata su Vanity Fair. Dopo pochi giorni, però, mentre era seduta in un caffè a Tunisi, Amina è stata presa di forza dalla famiglia: l'hanno legata e l'hanno segregata nella loro casa a Kairouan, villaggio a tre ore di macchina da Tunisi. Era una sorta di detenzione punitiva per avere pubblicato su internet delle foto a seno nudo".
E lei è riuscita a mantenere in qualche modo i contatti con Amina?
"Per un mese, silenzio assoluto, poi a un certo punto vengo a sapere dal fotografo, Ziad, che era riuscita a fuggire. Era con lui. Sfinita, dopo giorni di psicofarmaci imposti, botte, letture obbligate del Corano. Così il giorno dopo sono partita per intervistarla. Prima però l'ho sentita via Skype e ho venduto il servizio a Repubblica. Ma non è stato facile trovarla: si nascondeva, cambiava domicilio di continuo. Era ricercata dalla famiglia, dalla polizia, da tutti. Ho così incontrato Ziad al bar e, dopo un po' che discorrevamo, mi ha detto che secondo me ci stavano spiando. A quel punto siamo scappati e siamo andati alla disperata ricerca di Amina. Al domicilio che aveva comunicato a Ziad non c'era. Siamo allora andati nella sede del comitato delle femministe democratiche, dove Amina aveva trovato riparo. Lì ho realizzato la mia intervista per Rainews. Ho raccontato la sua prigionia domiciliare. Dopo qualche giorno Amina si è però riappacificata con la famiglia. Soprattutto suo padre aveva deciso di sostenerla".
Lei ha seguito anche tutta la vicenda paradossale della carcerazione della giovane Femen.
Sì, rientrata in Italia, ricevo un giorno una telefonata di Amina, la quale mi comunica la sua intenzione di andare a una manifestazione di salafiti organizzata a Kairouan. Vengo a sapere giorni dopo che è stata arrestata. Si era recata lì con uno striscione e aveva scritto la parola "Femen" sul muro di un cimitero. Per questo ha dovuto affrontare un processo per profanazione e detenzione di spray urticante. Sono rimasta costantemente in contatto con i suoi avvocati. Ero lì al suo primo processo. Ho conosciuto il padre. Mi disse: sosterrò sempre Amina. Era molto vicino alla figlia, la amava moltissimo anche se non condivideva i suoi gesti. Anche la nonna mi è sembrata molto affezionata a Amina. Sembrava addirittura più aperta degli stessi genitori. Era così contenta che la stampa internazionale fosse lì per sua nipote. Quando Amina è entrata in aula, mi sono messa in piedi su una panca per farmi vedere, spiccando dalla ressa. Così sono stata la prima persona che ha visto. E lei ha alzato il braccio e si è sbracciata per salutarmi, spontanea, incurante delle formalità da aula processuale. Un momento intenso. Amina ormai era diventata un simbolo della lotta per la libertà di espressione. Il clima era tesissimo. Fuori dal tribunale furoreggiavano gruppi di salafiti. Urlavano contro Amina, addirittura contro il suo diritto di difendersi davanti a un giudice. La sua avvocata coraggiosamente è uscita fuori, tentando di parlare con loro. Reazione: le hanno scagliato addosso le pietre. Finito il processo, noi giornalisti, insieme ai familiari e agli avvocati, siamo stati portati via a bordo di una camionetta blindata con tanto di scorta. Ci hanno poi trattenuti ore in commissariato in attesa che si calmassero le acque. Con me c'era l'avvocata di Amina. Mi disse: questa non è la mia Tunisia".
Un momento in cui ha pensato: sto rischiando.
"Il secondo processo di Amina, a Sousse, dov'era detenuta. Di nuovo ero lì, nei corridoio che conduceva all'aula di tribunale. Arrivando, mi ha vista, e anche in quell'occasione mi ha urlato: "Cristina: I miss you!". Lì le ho scattato una foto mentre una guardiana l'abbracciava per rassicurarla. Mi emoziona ripensarci. Dentro l'aula, poi, c'è stato lo show. Entrando, si è tolta il sefsari, il tradizionale velo che portano le detenute, gettandolo via davanti al giudice, a mo' di sfida. Probabilmente pensava di non avere niente da perdere: si girava continuamente verso di me, facendoci gesti, senza curarsi della corte. Subito dopo il processo, io e una sua amica abbiamo accompagnato l'avvocato al carcere. Mentre l'attendevamo fuori, sono arrivate due guardie intimandoci di andarcene. Siamo state perquisite. Hanno poi controllato le foto che avevo scattato e mi hanno costretta a cancellarle. Non contenti, mi volevano sequestrare la macchina fotografica, ma mi sono opposta, nonostante la tensione. Ho detto loro: io resto con la mia macchina fotografica. Così ho varcato le soglie del carcere. Mi hanno chiusa in una stanza, dove il direttore del carcere ha spulciato tutte le mie foto, anche se erano rimaste solo quelle delle mie vacanze al mare. Non erano convinti, pensavano che avessi nascosto chissà che foto e chissà dove. Alla fine, mi hanno lasciata andare, dopo un quarto d'ora di paura".
Un momento in cui ha pensato: ne è valsa la pena.
"Sicuramente quando Amina è uscita di prigione. Sono partita per Tunisi per rivederla. Sono andata a casa sua ed è stato emozionante: non le feci interviste, siamo state tutta la serata insieme a chiacchierare, tra amiche. Mi ha lasciata di sasso confessandomi di essere stata quasi contenta di essere stata in carcere: una bella esperienza di condivisione con le altre donne detenute".
Cosa le ha insegnato il lungo rapporto con lei?
"Ammiro su tutto la sua tenacia, il suo spirito ribelle e positivo. In ogni situazione, anche la più assurda, sapeva trovare il lato positivo. Nel nostro lavoro, quando scegli di raccontare una storia, c'è sempre qualcosa che ti attrae perché vi ritrovi te stesso. Amina è stata rivoluzionaria: a soli diciotto anni ha scosso l'opinione pubblica tunisina con il suo messaggio "il mio corpo mi appartiene e non è l'onore di nessuno". Sfidando soprattutto sua madre, che l'ha sempre accusata di avere gettato disonore su tutta la famiglia. Adesso che Amina vive a Parigi siamo sempre in contatto".
Via: rainews.it
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