RUBRICA: Al femminile
Qualcuno forse ricorderà il World Economic Forum per la protesta delle belle Femen, in soli leggins e stivali nella neve di Davos, in Svizzera, davanti ai cancelli che proteggevano l’annuale meeting dei più importanti economisti. Potrebbe sembrare un paradosso, ma ogni anno la stessa organizzazione pubblica il Global Gender Gap Report, con l’obiettivo di “quantificare la grandezza delle disparità di genere[i] e seguire i progressi in merito nel tempo”.
La classifica
Quest’anno l’Italia si colloca all’ottantesimo posto, perdendo in un solo anno ben sei posizioni a causa di un punteggio più basso (e non solo del fatto che “gli altri hanno fatto meglio”). Tra le motivazioni di questa caduta, una maggior diseguaglianza salariale percepita e un minor numero di donne a livello ministeriale[ii]. Solo il 67% del gap di genere è colmato dal nostro paese.
Dei paesi un tempo oltre cortina, pochi riescono a fare peggio di noi: solo Ungheria (81), Georgia (85), Albania (91), Armenia (92), oltre a Grecia (82) e Turchia (124). Meglio di noi, si collocano nell’ordine: Lettonia (15), Lituania (34), Slovenia (38), Moldavia (45), Croazia (49), Serbia (50), Bulgaria (52), Polonia (53), Russia (59), Estonia (60), Macedonia (61), Ucraina (64), Romania (67), Repubblica Slovacca (70), Repubblica Ceca (73), Cipro (79).
Com’è costruito il Global Gender Gap Index
Il punto forte dell’indice costruito dal World Economic Forum è la sua indipendenza dal livello di sviluppo dei paesi considerati. Attraverso una serie di sotto-indici, il punteggio finale è costruito in modo tale da valutare le differenze tra uomini e donne, non il punto raggiunto dalle donne. Tutti i valori sono infatti riscritti come rapporto tra il livello raggiunto dalle donne e quello raggiunto dagli uomini nello stesso campo, nell’accesso a risorse e opportunità, senza cioè tener conto del livello complessivo di “opportunità”. L’indice finale è dato dalla media tra:
- Partecipazione ed opportunità economiche: partecipazione femminile al mercato del lavoro, parità salariale percepita, differenziali salariali stimati, numero di donne legislatori e manager, numero di donne in professioni intellettuali o tecniche;
- Istruzione: alfabetizzazione, donne iscritte nella scuola primaria, secondaria, terziaria;
- Salute e sopravvivenza: rapporto tra i sessi alla nascita; aspettativa di vita in salute;
- Valorizzazione politica: donne con seggi in parlamento, donne a livello ministeriale, donne capo di stato o di governo negli ultimi 50 anni.
Viene effettuata una media ponderata tra i singoli indicatori che compongono ognuno dei sotto-indici, in modo tale da assegnare un peso maggiore a quelle caratteristiche che mostrano una minor variabilità tra i vari paesi: per esempio, poiché la maggior parte degli stati ha raggiunto la parità di genere nell’istruzione primaria, un paese dove questo non avviene sarà maggiormente penalizzato. I quattro sotto-indici variano tra 0 (massima diseguaglianza) e 1 (massima uguaglianza), e hanno lo stesso peso nella composizione dell’indice complessivo, che varia a sua volta tra 0 e 1, e può essere interpretato come percentuale del gap di genere colmata. Al top della classifica l’Islanda, che ha colmato oltre l’86% delle disparità, in fondo lo Yemen, con solo il 50%.
Interessante è l’indicatore “aspettativa di vita in salute”, che offre una stima degli anni che uomini e donne possono vivere in buona salute, tenendo quindi conto di quelli persi a causa di violenze, malattie, malnutrizione, ecc.
Confronto con il 2011
Anche per chi diffida dai numeri per valutare la qualità della vita, il Gender Gap Index dà un’idea della condizione del paese stesso nel tempo, visto che viene calcolato dal 2006 sugli stessi elementi.
La Lettonia è il paese ex-sovietico che eccelle, migliorando anche rispetto all’anno scorso grazie ad una riduzione del differenziale di reddito stimato.
Tra gli altri, possiamo notare che la Polonia perde ben undici posizioni, con un peggioramento in tutti i sotto-indici, fatta eccezione per la salute (minor uguaglianza salariale percepita, meno donne a livello ministeriale, e un peggioramento anche nella parità nell’istruzione). Peggio, nella regione, fanno solo la Russia, che perde sedici posizioni a causa di una riduzione della parità a livello economico e politico, e l’Albania (- 13), per un peggioramento in campo economico, politico e scolastico. Tuttavia, tra i paesi europei, il record negativo è – anche in questo caso – per la Grecia, che scivola di ben ventisei posizioni, non a causa di un aumento della disparità economica, come ci si potrebbe aspettare per via della crisi, ma per il minor numero di donne a livello ministeriale.
Al top
Non stupisce che le prime posizioni siano occupate dai paesi nordici: Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia e – poco dopo – Danimarca. Come al solito. Eppure dovrebbe stupire, visto che, come abbiamo detto, il Gender Gap Index è indipendente dal livello di sviluppo, di ricchezza, dal Pil. E invece i paesi nordici si collocano ai primi posti in questo, come in altre classifiche (Ocse-Pisa sulla qualità dell’apprendimento scolastico; Rainbow Index sui diritti Lgbtqi*) che guardano alle condizioni politico-sociali e non strettamente economiche degli stati. Forse la direzione della causalità è al contrario di quanto si pensa: non è la ricchezza degli stati nordici e la buona capacità di gestire il denaro pubblico a favorire i migliori risultati negli altri ambiti; al contrario, la politica è stata in grado di favorire una società più equa, di produrre una società più inclusiva, con un effetto positivo per l’economia del paese. In tal caso, l’Europa, ma anche gli Stati Uniti, hanno molto da imparare.
[i] Con “genere” si intende “il significato sociale assunto dalle differenze sessuali” (V. Burr), altrimenti detto con gender gap si intendono le disparità tra uomini e donne.
[ii] Poco importa che i dicasteri diretti da Cancellieri, Fornero e Severino siano decisamente più rilevanti: ne abbiamo persa una rispetto al governo Berlusconi (Brambilla, Carfagna, Meloni, Prestigiacomo).
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Via: eastjournal.net
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