Hanno fatto sobbalzare la cancelliera Merkel e gettato nel panico le sue guardie del corpo, il 14 giugno, a Berlino, tre donne a seno nudo, al grido di «free Femen!». Le militanti del movimento femminista fondato a Kyiv hanno lanciato una serie di azioni, dal parlamento europeo alla cancelleria tedesca, per protestare contro la condanna disposta il 12 giugno dal tribunale di Tunisi contro altre tre militanti che avevano lanciato un’azione in Tunisia: quattro mesi e un giorno di reclusione, più un gran polverone alzato dalle associazioni islamiche locali, che hanno annunciato di volersi costituire come parte civile. Le tre attiviste condannate a Tunisi avevano protestato a maggio in difesa di Amina, militante a sua volta in carcere dal 19 maggio per aver “offeso la morale pubblica” manifestando a seno nudo, e aver scritto “Femen” sul muro di un cimitero. Nei pressi di un luogo sacro.
Quella di Amina è forse stata la più temeraria delle azioni intraprese finora dalle Femen: una diciannovenne in topless contro una Tunisia “post-primavera araba” che vede rimontare la parte intollerante della morale islamica. Amina rischia grosso, ha mostrato il suo seno per provocare chi opprime la donna e la considera una personificazione del peccato. Ha scritto “fuck your moral” sul suo corpo per ribellarsi a chi ritiene immorale che una donna mostri anche solo la nuca. Nello stesso momento va sottolineato che il contesto in cui agiscono le Femen europee sarà anche diverso da quello del mondo arabo, ma i muri da abbattere sono altrettanto alti. Quelli tunisini e dei paesi islamici sono di pietra ed eretti nella società, ma quelli occidentali sono di vetro e si trovano dentro di noi. Quanti italiani hanno provato fastidio nel vedere in televisione giovani donne nude che urlano contro i leader di diversi paesi, e si sono ritrovati a pensare che “una donna non dovrebbe fare questo genere di cose”? Quanti al contrario, dopo il telegiornale, non hanno avuto niente da ridire delle donne seminude che pubblicizzavano gelati come simboli fallici?
C’è da chiedersi a questo punto se la topless jihad sia riuscita a lasciare una traccia. Per alcuni amici in facoltà quello delle Femen è un movimento controproducente, che favorisce invece che combattere la visione strumentale del corpo femminile. Secondo loro, molti di quelli che hanno visto le immagini delle loro irruzioni hanno prestato più attenzione a dove mettevano le mani le guardie del corpo, piuttosto che alle rivendicazioni delle Femen. Le attiviste, in questo modo, potrebbero anche riuscire a trasmettere un messaggio, ma che arriverà solo a chi già da prima prestava attenzione alla questione di genere. Quindi, tanta fatica e nessun progresso.
A una jam hip hop nel quartiere di Fuorigrotta incontro Walter “Afro”, breakdancer tra i più bravi della scena napoletana, col quale comincio a parlare dell’argomento. Walter trova che le Femen abbiano «un modo di manifestare forte, ma anche molto intelligente: la provocazione è una cosa molto importante ai fini della protesta, serve a farsi sentire». Gli faccio presente che, per alcuni, mostrarsi nude ed urlare contribuisce ad affermare alcuni stereotipi: «Secondo me no, anzi, sono i benpensanti a parlare così, quelli che rinchiudono la donna in un ruolo». Gli chiedo se secondo lui la società italiana, o anche quella napoletana, sia in grado di recepire un messaggio lanciato in questo modo: «Napoli , con tutti i suoi pro e contro, è una città che accoglie, e dove il pensiero libero riesce a circolare meglio. Sotto questi punti di vista la nostra città è molto più avanti di altre realtà italiane, e un messaggio del genere può arrivare». Alla fermata della cumana di Fuorigrotta comincio a parlare della questione con il dipendente SEPSA che vende biglietti, un signore sopra i quaranta che afferma di non conoscere troppo il movimento. Dice di averle viste a volte su internet, ma che non è riuscito a capire a cosa volevano arrivare. «Avranno i loro buoni motivi – aggiunge continuando a staccare biglietti – ma se vogliono un effetto dovrebbero esserne di più». Non ha mai visto un corteo di queste persone, se sono quattro o cinque non arriveranno a niente, secondo lui. Gli chiedo cosa ne pensa del metodo che usano. Mi risponde che vedere quelle donne mostrare il loro corpo con delle scritte non gli rappresenta niente. Interviene una signora che dall’interno del gabbiotto ha ascoltato attentamente il discorso, fumando una sigaretta: «Secondo me è un modo di fare egocentrico… solo per venire mostrate. Qualunque sia il motivo, non bisogna mostrare il proprio corpo, bisogna avere un “pudore interno”».
Cerco un altro parere femminile, e per strada, nel quartiere di Soccavo, incontro Giulia, ventuno anni. Lei pensa che le Femen facciano bene a protestare così, perché le persone non le guardano in quanto “nude” ma come «donne incazzate che non puoi fermare così facilmente». Secondo lei non suscitano desiderio, ma fanno paura. Si vede da come le prendono le guardie, dice. Non è stato facile trovare qualcuno che conoscesse le Femen, in giro per Napoli. Ma riuscire ad avere l’opinione di una adolescente sull’argomento è stata la sfida più grande: nessuna delle ragazze a cui ho chiesto sembrava conoscerle. I chilometri percorsi mi vengono ripagati quando arrivo sulla terrazza di San Martino, dove sedute su una panchina, trovo due ragazze che parlano volentieri dell’argomento. Una di loro mi dice che secondo lei «la causa per la quale si battono le Femen è giusta, ma per questioni di ordine pubblico non è il modo migliore di farsi sentire, soprattutto perché il nostro è un paese abbastanza rigido da questo punto di vista, anche a causa della presenza della chiesa». Di sicuro riescono a farsi notare, «ma per essere accolte in un “contesto istituzionale” forse dovrebbero cambiare metodo». E se alcuni dicono che il loro messaggio non può arrivare, che la gente le prenderà in giro o si limiterà a guardare i loro corpi, «è vero, fondamentalmente. Ma c’è anche una parte della popolazione, magari quella interessata a questo genere di questioni, che non si ferma soltanto a questo aspetto. Sicuramente l’ottanta per cento di loro, soprattutto gli uomini, non le considereranno per quello che lottano ma per la loro bellezza e la loro nudità».
Il 27 giugno la condanna a quattro mesi di carcere è stata convertita in sospensione condizionale della pena, dopo lo sblocco di uno stallo politico-giudiziario che in Tunisia ha visto il primo ministro Larrayed alle prese con una opposizione salafita galvanizzata dall’occasione di potersi ergere a difesa di un Islam oltraggiato, trasformando la protesta per la liberazione di un attivista in un attacco alla comunità islamica. Lo stesso giorno della commutazione della condanna le tre attiviste sono state scarcerate e oggi si fanno risentire denunciando pessime condizioni di detenzione, pressioni psicologiche, violenze e umiliazioni. Tunisi ha subito smentito, dichiarando che queste testimonianze “non riflettono la realtà della carcerazione nel carcere tunisino”.
Nel frattempo le Femen hanno smesso di occupare spazi di qualche rilevanza sui quotidiani, salvo rare eccezioni. Eppure sono nel pieno dell’attività: come elefanti in un negozio di cristalli irrompono in zone di precario equilibrio, dove si incrociano questione islamica e questione di genere, morale e politica, libertà personali e libertà collettive. Sembrerebbe il terreno ideale per dare il via a un dibattito su temi tanto delicati quanto attuali, ma le loro foto finiscono nella sezione “curiosità” e difficilmente si sentono discussioni a riguardo. Eppure a preoccupare non è il silenzio o l’ipocrisia, quanto il fatto che neanche un gesto estremo riesca a scalfirli. (umberto piscopo)
Via: napolimonitor.it
Short link: Copy - http://whoel.se/~oH46T$3a2