Cosa accade se coloro per i quali lottiamo ci vengono contro? Cosa succede quando ci rendiamo conto che combattiamo una battaglia che nessuno vuole combattere?
In Tunisia Femen, l’ormai famoso movimento femminista che rivendica la libertà delle donne di usare il proprio corpo contro ogni forma di sessismo, non sta ottenendo il successo sperato. E non sto parlando solo della storia di Amina, la ragazza che voleva avviare il movimento anche in Tunisia ma di cui purtroppo non si sa nulla da giorni, ma piuttosto della reazione di molte donne tunisine che accusano il movimento di negargli una voce. Un’accusa che ha del paradossale per le fondatrici di Femen il cui obiettivo è invece proprio quello di gridare al mondo gli abusi e le violenze di cui le donne continuano ad essere vittime.
Perché dunque in Tunisia succede l’inspiegabile per il movimento in topless che fa battaglia e proseliti a macchia d’olio? In realtà la reazione delle donne tunisine è piuttosto prevedibile e si inscrive nel più ampio alveo di cosa e come si intendono i diritti umani e civili, e di come si pensa debbano essere tutelati. Ed è qui che torna l’annosa questione del relativismo culturale, un termine un po’ oscuro e decisamente abusato negli ultimi anni, ma che pare proprio calarsi appieno nelle esempio delle donne tunisine. Qualche giorno fa, infatti, un gruppo di contestatrici di Femen si è riunito a Tunisi per dare vita a un movimento speculare, di donne che protestano solo vestite, e per pubblicare un documento in cui si rimproverano le attiviste di Femen «Non dobbiamo uniformarci al vostro modo di protestare per essere emancipate. Lo fa già la nostra religione, grazie mille».
Chi ha ragione? La verità, come sempre, sta nel mezzo. Non c’è dubbio, infatti, che la volontà che anima il movimento Femen, anche in Tunisia, è nobile e che la causa per cui combattono è condivisibile da tutte le donne. È vero anche, però, che il modo che hanno scelto per attirare l’attenzione può funzionare solo nelle piazze occidentali (con le quali non intendo le piazze ad Ovest di una città ma ad Ovest del mondo) e non dappertutto. Femen pecca, insomma, di un peccato antico: quello di credere che quello che l’Occidente ritiene sia giusto rivendicare sia condiviso da tutti. Un peccato di superbia spesso, in questo caso però d’ingenuità: un seno nudo non è un’arma per una donna tunisina, ma semmai una violenza prima di tutto sul suo modo di vedere il mondo.
Le attiviste di Femen non devono terminare la loro battaglia, né rinunciare ad espandere il loro movimento anche laddove trovano delle resistenze. Devono semmai capire perché le donne che vogliono difendere le sono ostili e che, come diceva Sun Tzu, se si vuole vincere la guerra, bisogna sempre saper combattere con armi e mentalità nuove.
Via: thetamarind.eu
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