‘Il mio corpo mi appartiene’: Amina, una ribelle per la libertà

L'idealismo ribelle al tempo di Facebook entra nella storia ai primi di marzo del 2013 quando Amina Sboui, liceale tunisina diciottenne, posta una foto a seno nudo con la scritta, in arabo, Il mio corpo mi appartiene. Mentre il messaggio fa il giro del mondo, scoperchiando fragorosamente un tabù del mondo islamico, un uragano investe la sua vita. Il memoriale di Amina, pubblicato nel 2014 a Parigi con la collaborazione di Caroline Glorion, esce ora in Italia in un momento storico particolarmente drammatico.

Il racconto si apre con il "colpo di teatro": il gestus della nudità esposta in rete come bandiera, le Femen che accolgono Amina nel gruppo, la famiglia e la comunità islamica che reagiscono duramente. Ma lo spirito ribelle Amina se lo porta in dote dalla nascita come un segno zodiacale. Il flashback rivela una vita vissuta in trincea fin dall'infanzia segnata dalle violenze e dalla dolorosa elaborazione del lutto, dai conflitti familiari specie con la madre, prototipo della donna borghese consumista e sottomessa al sistema. E poi l'escalation della trasgressione tra rock, amicizie e sigarette, un amore clandestino, i social network, femminismo e agnosticismo, la rivoluzione dei Gelsomini e la disillusione seguita alla restaurazione islamica del partito Ennahda.

Ma non avevo intenzione, racconta Amina, di adagiarmi sulla fragile notorietà scaturita da quella provocazione. Recatasi di nascosto nella città santa di Kairouan il 18 maggio 2013, giorno dell'annuale megaraduno pro Islam, finisce in cella per un gesto da lei stessa definito "gratuito e irragionevole": con una bomboletta scrive Femen sulla parete del cimitero di fianco alla grande moschea. I poliziotti la salvano dall'ira dei salafiti. Profanazione di cimitero diviene in breve il primo di una serie di capi d'accusa, seguito da detenzione di lacrimogeno (vero), attentato al pudore (falso), formazione di un gruppo finalizzato all'aggressione (falso). Nonostante la mobilitazione internazionale, Amina trascorre in carcere 75 giorni, durante i quali si batte per denunciare i soprusi del sistema carcerario radicalizzando ancora di più il suo pensiero sulle questioni riguardanti la libertà e i diritti delle donne. All'uscita dal carcere si trasferisce a Parigi per proseguire gli studi e l'attività di blogger rivoluzionaria, sfociata in questo libro-testimonianza.

Cose che mi hanno colpito di Amina, vista in carne e ossa alla Casa delle Donne di Milano durante la presentazione del libro: lo sguardo malinconico, lo stesso che traspare dalle foto che hanno fatto il giro del mondo, illuminato però da improvvise scariche di energia sotto forma di rari sorrisi; la timidezza e il tono compassato e freddo delle sue risposte di fronte al pubblico, in linea con la qualità della sua scrittura: precisa, lucida, diretta, penetrante ma priva del pathos emotivo che ci si potrebbe aspettare; il look, indossato come si indossa la propria icona sul palcoscenico del mondo: capelli corti e rossetto, shorts, una giacca blu su una maglietta dei Nirvana, la sua copertina di Linus.

Leggendo il suo memoir ci si dimentica in fretta dei suoi vent'anni. Amina è una giovane donna coraggiosa e intelligente, trasgressiva e narcisa, determinata e spesso impulsiva. Passata in un soffio dal salotto borghese di casa sua ai due metri per tre di una cella, oggi forse è meno incosciente e più spaventata (benché guardata a vista da un body guard) di un paio d'anni fa. Ma le sue idee, quelle che altri chiamerebbero forse errori politici, continuano a essere la sua forza. Perché trasmettono alla sua generazione la coerenza di un orientamento libertario radicale. Prima di cambiare la politica bisogna cambiare la società, si legge nel libro, una mentalità sottomessa da secoli a regole discriminatorie imposte dall'alto. I partiti politici non dovrebbero essere legati alla religione, l'Islam politico moderato non esiste.

Pensieri forti e netti come una vignetta. “A Charlie Hebdo sono liberi di disegnare quello che vogliono”, ripete due o tre volte Amina, stimolata a dire la sua sull’opportunità da parte del giornale francese di continuare a pubblicare vignette su Maometto anche dopo il massacro. "Ci sono paesi in cui è proibito parlare del Profeta ma non uccidere in suo nome..." Luz, il disegnatore miracolosamente scampato all'attentato, le aveva dedicato un paio di vignette all'epoca della detenzione. "Sono, erano miei amici e purtroppo abbiamo gli stessi nemici, condividendo la critica a un certo tipo di società". Amina racconta di non aver partecipato alla grande manifestazione parigina perché del suo slogan si sono indebitamente impossessati leader politici lontani anni luce dallo spirito di Charlie, come Netanyahu o il re di Giordania.

Io mi definisco uno spirito libero, conclude Amina, ribelle anche a ogni presunta appartenenza politica-ideologico. La breve militanza nelle Femen si è conclusa, spiega nel libro, per il disaccordo su alcuni progetti ma anche per l'uso strumentale che il movimento ha fatto del suo caso. Libertà, dignità e giustizia sociale, i principi per i Amina quali si batte, non hanno nazionalità né colore, non hanno deroghe né confini, non hanno opportunismo e neppure - lo ha pagato sulla sua pelle - il senso dell’opportunità.

Mi viene in mente, in questo drammatico passaggio della storia che si riallaccia all'11 settembre non solo per la risonanza mondiale ma anche per le sue incerte conseguenze, la riflessione di Tiziano Terzani nelle sue Lettere contro la guerra: la nonviolenza è l'unica chance che l'umanità ha per sopravvivere. Un idealismo militante di cui Amina si è fatta portavoce con l'arma nonviolenta del suo corpo e della sua voce. Ho l’impressione che ne sentiremo parlare ancora.

Amina
Il mio corpo mi appartiene
Giunti
160 pp., 12 euro

Via: panorama.it


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