La storia di Amina, la ragazza tunisina nuda su Facebook

Proteste pro Amina La storia di Amina, la ragazza tunisina nuda su Facebook

di Francesco Ruffinoni

Circa un mese fa, Amina Tyler, una ragazza tunisina, è scomparsa dopo che aveva postato su Facebook una sua fotografia a seno nudo. In uno sguardo disinibito e serioso (Amina ha diciannove anni) la pretesa di rivendicare, in franchezza e autonomia, la propria libertà. Una libertà, quella delle giovani donne tunisine e di molte donne del mondo, troppo volte calpestata da precetti e divieti. Una foto comunque innocente rispetto a tutto quel trash immaginifico che i media occidentali, ormai da anni, ci propinano in continuazione. Eppure, questa foto è motivo di scandalo. La semplice nudità, pure nella sua acerba bellezza, è ancora capace, in alcune parti del globo, di smuovere giudizi e maledizioni, come la fatwa che, puntualmente, è stata lanciata (questa volta dall’imam Adel Almi) contro la povera Amina e contro il suo gesto, considerato blasfemo e offensivo. Non solo la nudità, però, pure la parola, in certe nazioni, è matrice di condanna. “Il mio corpo mi appartiene e non rappresenta l’onore di nessuno”, recita il petto nudo di Amina. Non solo lettere incandescenti, quindi, anche gocce che fanno traboccare vasi.


 La storia di Amina, la ragazza tunisina nuda su Facebook

Gli organi di stampa italiani ed europei non hanno dato particolare rilievo a questa notizia, finché non sono entrate in gioco le Femen. D’altro canto, il gesto “sovversivo” di Amina si è ispirato proprio alle campagne del collettivo ucraino. Per smuovere l’opinione pubblica in solidarietà di Amina, le Femen hanno organizzato diverse manifestazioni in tutta Europa, la cosiddetta Topless Jihad, ovvero una mobilitazione a livello internazionale. Da Bruxelles a Milano, da Kyiv a Parigi, gruppi di femministe a seno nudo hanno protestato, in nome di Amina, davanti a moschee ed ambasciate scatenando, fra l’altro, le rimostranze di un gruppo di donne musulmane, che si ritrovano su Facebook sotto il nome di Muslim Women Against Femen. Le femministe ucraine, abituate alle critiche da parte degli “scranni del potere”, non avrebbero potuto immaginare come il dissenso più sferzante potesse venire proprio da quelle donne per le quali sono convinte di lottare. Il linguaggio estetico da loro ostentato, d’altronde, non fa altro che ricalcare (inconscia sudditanza?) lo stereotipo maschilista con cui il corpo femminile, in Occidente, è spesso visto dall’uomo e dalla società di consumo: oggetto, merce in balìa del più turpe e maschile desiderio sessuale. Svelare le proprie intimità, in modo provocatorio e violento, davanti ad una platea di spettatori europei, è comodo e contestualmente fuori luogo, nonché inutile. Facile denudarsi quando non si è soffocati dalla costrizione patriarcale, o dalla brutalità di certo fanatismo religioso.

Affermare ciò non vuol dire, però, peccare di ingenuità. Rattrista, infatti, notare come il gruppo Muslim Women Against Femen paia un abbarbicamento edulcorato dei Fratelli Musulmani, il prodotto di un contesto sociale bigotto, che utilizza la religione per scopi politici e ideologici. La pagina Facebook del gruppo, del resto, esprime non solo la volontà di separare le donne musulmane da coloro che musulmane non sono, ma pure l’ipocrita pretesa di collegare il modo di apparire della donna alla religione. Tutto ciò è ridicolo: i principi che regolano i costumi femminili, all’interno delle società musulmane, sono spesso frutto di convenzioni antropologiche preislamiche. Ciò che più amareggia, però, è l’odio latente che traspare dal linguaggio usato, carico di rabbia e di antichi livori. Catalogare le Femen come “imperialiste”, è intellettualmente disonesto oltreché pretestuoso. Spesso gli occidentali sono accusati di razzismo: la loro colpa starebbe nel considerare termini “musulmano” e “terrorista” come sinonimi. Identificare come “imperialiste” delle giovani femministe, solo perché occidentali, è altrettanto stupido e sprezzante. Questo linguaggio mistificatorio (degno del peggior maschilista) pone forti dubbi, quindi, sulla trasparenza della pagina e sulle reali intenzioni dei rispettivi ideatori. Ideatori che, volontariamente o meno, non fanno altro che piegarsi alla subdola coercizione maschile. Non occidentale, questa volta, bensì mediorientale.

Il gesto di Amina, è stato definito “sciocco” o “poco intelligente” da molti, soprattutto da coloro (non solo uomini) che si proclamano per i diritti delle donne. Questo atteggiamento ricorda vagamente quello di certa opinione pubblica di fronte la notizia di uno stupro: «Aveva la minigonna, in fondo se l’è cercata». Il gesto di Amina può essere condivisibile o meno, ma è stato coraggioso perché espresso in un contesto non facile, dove atti particolari possono ancora avere un senso, sapido e rivoluzionario. Giudicare questi atti sminuendoli, non fa altro che rivelare la subordinazione psicologica di molte donne verso il maschilismo imperante. Il corpo di Amina non è il corpo di Inna Shevchenko, tanto meno quello di una sprovveduta qualunque.


Via: dirittodicritica.com


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