Amina Sboui, la blogger a seno nudo che lotta per la libertà

«Nell’Islam il numero cinque è fondamentale: cinque le preghiere, cinque i pilastri della fede. Sono nata in una famiglia musulmana e sono cresciuta come musulmana. Non prego cinque volte al giorno, ma bevo cinque birre al giorno, esco col mio ragazzo cinque volte la settimana e fumo cinque pacchetti di sigarette al giorno. Infrango molte regole, ma il numero cinque lo rispetto».

Febbraio 2013. Amina ha 18 anni. Frequenta il liceo, fuma, sa l’inglese e il francese, chatta su Facebook con amici e amiche sparsi un po’ in tutto il mondo. Amina è cresciuta a Tunisi, ha radici musulmane ma non è praticante, si sente più a suo agio nel placido silenzio di una cattedrale cristiana. Amina trascorre molto tempo su Internet, nel laboratorio della scuola. Legge, si informa, cerca di capire cosa c’è là fuori, fuori dal suo Paese così imperfetto, così uguale al se stesso di prima, di prima della rivoluzione, così disattento di fronte ai diritti dei suoi abitanti, delle sue donne.

In uno di questi pellegrinaggi digitali, Amina scorge alcune foto di donne a seno nudo. Donne indiane che reggono uno striscione, e lo striscione grida L’esercito ci violenta. I corpi femminili, quei corpi spogliati della loro dignità e rasi al suolo come campi di battaglia, si mostrano nella stessa nudità che gli oppressori hanno loro imposto con la forza. «Le donne si servivano dei loro corpi mostrandosi agli uomini, come libri aperti. Il corpo della donna, così spesso disprezzato, sfruttato, violentato, manipolato, diventava una bandiera».

Amina continua a cercare, e approda sulla pagina Facebook di coloro che più di molte altre hanno reso celebre questo gesto nel mondo. Invia loro un messaggio, alle Femen di Ucraina, ma si sente rispondere che è troppo piccola, distante. «Sai, non è certo domani che verremo in un Paese arabo…», le dicono, ma se proprio vuoi, pensa a uno slogan e fatti una foto, vediamo se e come reagirà la tua gente. Amina non se lo fa ripetere due volte. Toglie la maglietta e con un pennarello scrive sul petto la sua rabbia: Fuck your moral!. È giovane, beatamente ingenua. Non la sfiora il pensiero delle conseguenze. Il numero di amici su Facebook triplica in poche ore, ma la disapprovazione grida più forte: cosa ti è preso? Perché lo hai fatto? Hai commesso peccato. Ti lanceremo l’acido sulla faccia. Sei una vergogna per la tua famiglia… il tuo corpo non ti appartiene.

Quest’ultima frase convince Amina, che nel frattempo ha cancellato la foto per placare l’animo della madre in lacrime, a farsene scattare un’altra. Questa volta da Zied, un fotografo professionista. «Una risposta a coloro che criticavano la mia azione, ma più in generale a tutti quei musulmani integralisti che pensano e proclamano che il corpo ti è stato dato da Dio e devi restituirglielo come te lo ha dato, intatto e puro».
Sul petto, scrive Il mio corpo mi appartiene. Non è l’onore di nessuno.

Così di nuovo, imprevisto e devastante, torna l’uragano. Amina fugge di casa, viene ritrovata, schiaffeggiata, portata da uno psichiatra e da un esorcista, imbottita di farmaci. Solo la nonna sembra comprensiva: «Amina, ma che idea mostrare il tuo seno, non ne hai!». In quel periodo di segregazione, privata del cellulare e del computer, Amina non sa che molte persone in tutto il mondo si stanno mobilitando per lei.

Maggio 2013, la nuova fuga. Destinazione Kairouan, sede del raduno annuale degli islamisti. Lì, Amina decide di non voler più «essere ridotta a un corpo e a un paio di tette esibite su Internet». Tenta un’azione diversa, più forte: con uno spray scrive Femen sul muro del cimitero, accanto alla moschea. Viene scoperta, arrestata, processata. In carcere, scopre una solidarietà fra donne che mai nella sua breve vita aveva sperimentato. Difende le altre detenute, divide con loro i pasti e le sigarette, dà lezioni di inglese. Sfida i giudici con la sfrontatezza dei suoi anni, udienza dopo udienza. Amiche avvocate si prodigano fino a farla scarcerare, i giornali parlano di lei, incluso Charlie Hebdo, che le dedica alcune vignette: per triste coincidenza, l’autobiografia Il mio corpo mi appartiene (Giunti Editore, 2015, 160 pp, 12 Eu) esce in Italia proprio nei giorni che seguono la strage.

Agosto 2013. Poco dopo la scarcerazione, poco prima di trasferirsi a Parigi per terminare gli studi. Amina lascia Tunisi e lascia le Femen perché non condivide i loro atti più recenti, il mostrarsi a seno nudo davanti a edifici religiosi, li trovi «provocatori senza essere costruttivi». Si concede però un’ultima fotografia. Amina scrive sul suo petto We don’t need your dimocracy, mentre si accende una sigaretta con la fiamma di una bottiglia molotov. In inglese, con quell’errore nell’ultima parola, come errati ritiene siano i tentativi di democrazia nel suo Paese. Decide di farlo quando il leader del partito comunista, durante un incontro casuale, le comunica che cambierà il nome del partito, perché la parola comunismo manda un messaggio sbagliato al popolo, è associata ad ateismo.

«Mi è sembrata una pazzia. Quanti uomini erano morti, quante donne erano state violentate, quanti studenti erano stati cacciati dalle loro università, solo perché comunisti?».

Via: mentelocale.it


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