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«Je suis Femen» è il film che Alain Margot ha dedicato a Oksana Shachko, una delle fondatrici delle Femen (martedì 2 dicembre ore 22 al cinema Odeon per il Festival dei Popoli). L’ormai celebre movimento, nato in Ucraina nel 2008, si è conquistato in questi anni una cospicua attenzione mediatica grazie alla scelta – accuratamente studiata – di organizzare azioni di protesta in cui le attiviste si mostrano a seno nudo in luoghi pubblici. Una sorta di body art 2.0 dalle implicazioni politiche, che il regista svizzero ha cercato di inquadrare in un ritratto più personale di Oksana, che va al di là dei momenti solitamente immortalati dai repoter internazionali. Conosciamo così la donna, la militante, l’artista: se le azioni delle Femen sono pensate per suscitare scalpore mediatico, per “scandalizzare” con un uso consapevole della nudità e dare quindi un’estrema visibilità mediatica al messaggio politico che esse portano avanti, non può di certo stupire che, dietro a tutto questo, ci sia una giovane molto a suo agio con i mezzi di comunicazione, che si interessa di politica e di pittura e a cui di certo non manca il coraggio (è stata più volte arrestata e maltrattata dalla polizia).
Fenomeno mediatico prima che politico
«Una manciata di pennelli e il seno nudo sono le loro uniche armi – ha dichiarato Margot – E’ affascinante constatare i rischi che sono disposte a correre pur di cercare di cambiare il mondo. Ho voluto mostrare al pubblico chi sono le donne dietro queste amazzoni». Eppure, ce lo permetterà il regista, qualche dubbio affiora davanti al film, soprattutto per quanto riguarda il punto di vista troppo partigiano che lo contraddistingue. Nonostante le premesse, Margot non riesce a evitare di trasformare Oksana in un’eroina dei nostri tempi, soffermandosi un po’ troppo sul ritratto intimo della donna e perdendo quindi di vista il quadro generale del fenomeno (sulla cui presunta “purezza” oggi sono in molti a dubitare). Più che seminare dubbi e interrogativi (come sarebbe lecito aspettarsi), il documentario finisce per fare, troppo semplicemente, il gioco delle Femen, e cioè quello di presentarsi sul palcoscenico del mondo come fenomeno mediatico prima che politico. E’ vero che le due cose oggi sono sempre più indistinguibili, ma il cinema documentario non dovrebbe servire anche a questo, e cioè ad aiutarci a discernere, dove possibile, il vero dai simulacri?
Via: corrierefiorentino.corriere.it
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