Le donne musulmane e la "battaglia" anti-Femen

Le donne musulmane non ci stanno: le Femen non le rappresentano, e soprattutto, come testimoniano le pagine di facebook che si sono create nelle ultime ore, tra cui “Muslim Women Against Femen” (https://www.facebook.com/MuslimWomenAgainstFemen?fref=ts), non hanno bisogno di qualcun altro per essere “liberate”. Una carrellata di fotografie, in cui donne musulmane, velate e non, da diverse parti del mondo, esprimono la loro posizione anti-femen. Ecco alcuni messaggi: “Quando contestate la mia libertà di coprirmi, siete voi che mi opprimete!”; “Il mio corpo, la mia proprietà, non obbligatemi ad esibirmi” e “Non ho bisogno di mostrare il mio seno per dire al mondo che sono libera”.

Una risposta al “Topless Jihad”, la mobilitazione internazionale lanciata dalle Femen in sostegno di Amina Tyler, la giovane attivista tunisina che ha postato su facebook una foto a torso nudo, beccandosi le minacce degli estremisti (http://www.almaghrebiya.it/wordpress/2013/03/31/tunisia-amina-un-topless-per-gridare-liberta/). La mobilitazione comprendeva proteste (ovviamente a seno nudo) davanti alle ambasciate e ai consolati tunisini. Anche in Italia, a Milano, tre attiviste hanno protestato e, davanti a una ragazza tunisina, che ha provato a parlare con loro, per tutta risposta hanno alzato la voce, ignorandola completamente (http://www.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Ftv.ilfattoquotidiano.it%2F2013%2F04%2F04%2Fmilano-blitz-delle-femen-al-consolato-tunisino-topless-jihad-per-amina%2F227102%2Fh=9AQGXIW8f).

Ed è proprio questo lo sbaglio delle Femen. Premettendo che, donne musulmane a parte, sono anche molte le donne italiane che non condividono il metodo d’azione delle Femen. Il motivo è semplice: ultimamente le donne devono lottare per farsi strada per le proprie capacità e non per il proprio corpo; lottare contro annunci di lavoro che richiedono, la maggior parte delle volte, un’altezza minima (anche per fare l'addetta stampa!) e una “bella presenza” (ma la bellezza non è soggettiva?). Allora si rigettano quei modelli di "quasi perfezione" che vengono proposti, e da qui si rigetta qualsiasi forma di protesta che utilizzi il corpo per mandare un messaggio, perché equivale a una mercificazione che non si vuole più. E il metodo esibizionista delle Femen, più che andare contro un modello maschilista, non fa altro che ricalcarlo.

Ma le Femen non vogliono ascoltare. Si pongono a salvatrici dell’altro (in questo caso le donne musulmane) senza nemmeno fare lo sforzo di conoscerlo davvero, di ascoltare le loro ragioni e cercare di comprenderle. Perché le Femen hanno, nel loro bagaglio culturale, un’immagine delle donna musulmana come oppressa e quindi, come tale, bisognosa di essere salvata, in questo caso liberata, spogliata dal suo velo.

“Quello che ci è stato proposto, in questi anni, è solo l’Islam nemico del cristianesimo, solo quello che segue la trita logica dell’antinomia della tradizione crociata. Solo quello, pur presente, di Al Qaeda e l’islam politico più radicale. Nascosto ai più è rimasto invece il panorama variegato delle contaminazioni e delle trame inestricabili che rendono il nostro e il loro un destino comune”. Scrive la giornalista Paola Caridi nel suo libro “Arabi invisibili”. E ancora: “Sono arabi, dunque terroristi, dice ormai la vulgata. Loro, di conseguenza, si rinchiudono nel guscio, innescando talvolta una passività pericolosa che fa sì che rifiutino – a priori – qualsiasi idea di commistione, approccio, contaminazione, anche solo superficiale, con chi ritengono non nutra un sentimento di parità verso di loro, ma solo di superiorità”.

Le Femen si sono infatti imposte con superiorità, pensando che il loro fosse l’unica forma di protesta possibile e desiderabile. Ma qualcuna di loro ha mai viaggiato? Si sarebbero rese conto che, ad esempio, girando per le strade di Marrakech si trovano donne con hijab che vanno in motorino, che coprono ruoli importanti nelle cooperative al femminile, accanto a donne con niqab e donne senza velo. Il caleidoscopio di cui parla appunto la Caridi nel suo libro. Non si può nemmeno generalizzare sul mondo arabo: “Il mondo arabo è un invenzione – scrive Tahar Ben Jelloun nel suo “Non capisco il mondo arabo” -, perché i mondi arabi sono tanti quanti i paesi arabi”. L’Arabia Saudita è diversa dall’Egitto, come lo è dalla Tunisia, per citarne alcuni.

“Vedi, essere arabo e vivere nel mondo arabo oggi è come sbattere la testa contro uno spesso muro di inattaccabili ostacoli politici, sociali ed esistenziali. Martelli, martelli, ma nulla cambia, eccetto il numero dei lividi sulla tua pelle. Ma bisogna continuare a colpire quel muro dall’interno. E’ la nostra unica speranza. Perché non può essere distrutto, penetrato o abbattuto dall’esterno. E soprattutto non da “stranieri”. Il cambiamento non è “importabile”. Scrive Joumana Haddad nel suo “Ho ucciso Shahrazad”. E ancora: “Ciò che segue indubbiamente sorprenderà qualcuno: le donne arabe non sono tutte vittime. Non sono tutte sfruttate. Non sono tutte passive. Né maltrattate, né deboli. Non tutte le donne arabe sono musulmane. Non tutte le donne arabe cristiane sono emancipate e libere dai pregiudizi. Non tutte le donne arabe portano il velo, il burqa o lo chador. Non tutte le donne arabe subiscono aborti selettivi, né mutilazioni o matrimoni combinati. E, cosa più importante: non tutte le donne arabe piegano la schiena. (…) La vera sfida non sta nel provare che l’immagine prevalente sulla donna araba sia sbagliata, piuttosto nel dimostrare che è incompleta, e che occorre affiancarle l’altra immagine, quella luminosa, così che la seconda diventi parte integrante della prima nella percezione occidentale (e non solo).

La Haddad il tabù del sesso, tra gli altri, l’ha rotto eccome, e grazie ai suoi scritti, facendo sentire la propria voce, senza avere bisogno di denudarsi per attirare su di sé l’attenzione.

Così, l’azione delle Femen avrebbe dovuto essere contestualizzata. Se le Femen avessero davvero avuto a cuore la condizione delle donne musulmane, sarebbero potute scendere in strada insieme a donne con hijab, niqab e donne vestite “all’europea” reclamando i loro diritti, scrivendo sui cartelli i loro messaggi. Come è successo durante il recente World Social Forum svoltosi a Tunisi. Il gesto di Amina, ad ogni modo, è stato coraggioso (e le minacce da lei subite da condannare), ma il suo coraggio avrebbe dovuto declinarlo in modo più intelligente. 

La Tunisia aveva davvero bisogno dell’azione di Amina? O forse avrebbe bisogno che l’attenzione dei mass media ritornasse sul governo, ritornasse a parlare dei problemi che affliggono la popolazione: aumento della disoccupazione (a gennaio ha toccato il 17% e a metà marzo un giovane si è immolato di nuovo in segno di protesta), dell’inflazione, dell’aumento dei prezzi e della povertà dilagante?
 

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Via: linkiesta.it


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